sabato 9 giugno 2018

La leggenda di Antonio e Stefania

   

Antonio e Stefania
Leggende gozzitane di Anthony Withdown

Le storie nascono osservando i luoghi con le sue bellezze e i suoi misteri, non sempre sono vere, ma a volte ci piacerebbero che lo fossero.


Camminando lungo l'impervio e faticoso sentiero sulla costa, che dalla spiaggia rossa di Ramla Bay, conduce verso nord, in direzione di Marsalforn,


 si ammirano dall'alto delle incantevoli baiette sassose e acqua verdeazzurra.



La cosa più sorprendente però, è una formazione calcarea, che dall'alto appare bianchissima, disseminata di rocce rosse venute giù dal promontorio sovrastante. Ne ho già parlato in un altra escursione che sempre da Ramla bay andava verso est, dove incontrai con meraviglia, una piattaforma bianca sul mare, morbida come la seta, che a quel tempo, ribattezzai il letto di Ulisse, ma quella è un altra storia da raccontare.

Tornando sui nostri passi, per arrivare su quest'altro candore, bisogna lasciare il sentiero principale di mezza costa, e  scendere verso il mare. 
La pietra bianca e un po' polverosa che lambisce il mare cristallino ha naturalmente una spiegazione geologica, come tutte le rocce del mondo. Qui però, l'isolamento forzato dei nativi, ha dato a questo fenomeno un'altra spiegazione e qui comincia la nuova storia che si intreccia come un edera a vecchie leggende tramandate, dall'aspra e generosa umanità dell'isola.








Nella sua tribolata storia, Gozo è sempre stata depredata dagli invasori di turno. Quando nel famoso assedio di Malta da parte dell'impero Ottomano, nel XVI secolo, dopo mesi d'infruttuosi tentativi, alcuni dei più sanguinari saraceni, dirottavano la propria frustrazione sulla poco difesa isola di Gozo. 

Li la storia, riporta di violenze inaudite, giovani trucidati, donne violentate e fatte schiave e caricate sulle galee, di vecchi picchiati a morte, insomma una tragica storia, che a quei tempi si perpetrava dai popoli più forti verso i più deboli, in tutti gli angoli del mondo incivile. 
La triste leggenda vuole che il bianco setoso di quella pietra sia dovuto alle lacrime strazianti delle fanciulle rapite. Lacrime disperate che colorarono indelebilmente il punto del loro addio alla propria terra. 



La stessa leggenda ci dice che le rocce rosse sparpagliate sul bianco, era dovuto al sangue versato, dai padri, dai mariti e dai fratelli delle giovani donne, per difenderle.

Quando oggi ci camminate sopra, ammirati dai colori, scattando foto all'impazzata, fermatevi un attimo a ricordare con un pensiero gentile, quelle antiche e tremende storie che sotto i vostri piedi sono accadute.

Proseguendo il percorso, troveremo la testimonianza di un altra leggenda, questa però almeno un po' più romantica. La leggenda di Antonio e Stefania. 

Scendendo delle scale in pietra, 
si arriva in un altro spiazzo bianco costellato di massi multicolori, che prosegue tra la grigia collina argillosa che scende a sinistra  e il mare indaco sulla destra, fino a quando il passaggio non viene interrotto da un enorme roccia gialla che ci si para davanti. Una roccia gigantesca venuta giù dalla collina in tempi senza memoria, o forse no...

























La cosa sorprendente è la porticina inaccessibile scavata nella roccia, e a questo punto comincia la storia che ne svela il mistero.

Prima però un antefatto storico che ne posiziona l'evento:


Tornando al periodo buio delle invasioni sulle coste del Mar Mediterraneo, accade che uno dei più feroci corsari ottomani di nome Turghud Alì, più tristemente conosciuto come Dragut si trovava a scorazzare su Gozo, isolotto scarsamente difeso, di ritorno dalle sue imprese, in cerca di acqua, viveri e schiavi.
Dragut era un comandante navale ottomano,  successore di Khayr al-Din Barbarossa, capo della marineria turca, spietato, audace e ottimo navigatore, viceré di Algeri, Signore di Tripoli e di al-Mahdiyya, Dragut si fece chiamare Spada vendicatrice dell’Islam e fu lo spietato protagonista  di scorrerie, saccheggi, e stupri in tutto il Mediterraneo.“Famoso e a christiani dannoso corsale…il più crudel nemico de’ cristiani, et il più dispietato, e pernicioso corsale, di quanti all’età nostra in questi mari stati siano..potente e crudel corsale”


Un tipino niente male che si accompagnava con dei guerrieri sanguinari vestiti di pelli di belve, con in testa un casco di ferro dorato, il volto tatuato con maschere spaventose e armati di scimitarre affilatissime. Erano venuti nell'arcipelago maltese nel luglio del 1551, con 13 galee e 2 galeotte. Erano circa 1600 soldati detti matasiete, per aver giurato di uccidere ognuno non meno di sei nemici in guerra ed in arabo settah vuol dire sei. 

Mentre il grosso dell'esercito ottomano circa diecimila uomini, assediava le fortificata ed inespugnabile Malta, Dragut con i suoi uomini andò a seminare il terrore su Gozo, la piccola isola, era una facile preda, specialmente per i vili. 



- Stefania Bonnici era una giovane ragazza, di animo semplice, abituata sin da piccola ad aiutare la famiglia. A quel tempo, si lavorava la povera terra, sperando in qualche buon frutto. Si accudivano i gracili animali e si cercava nelle poche pozze dell'isola, dell'acqua torbida da portare a casa.
Antonio Calleja, era un ragazzo pieno di voglia di vivere ed un gran lavoratore, spaccandosi la schiena dall'alba al tramonto nei campi o sperimentando nuovi sistemi di caccia per i molti volatili che passavano sopra l'isola. Abitava nel terreno vicino a quello della famiglia di Stefania, si conoscevano sin da piccoli, e se ne era innamorato, perdutamente.
Tutti i saggi e i sassi dell'isola sapevano che il loro destino era di vivere assieme. Era una cosa non scritta, ma vera come l'aria del mattino.
Quando i pirati saraceni sbarcarono a Gozo, quasi tutta la popolazione circa 5000 abitanti, trovò rifugio nella fortificata Cittadella, situata su una collina al centro dell'isola.


La Cittadella oggi.

Antonio decise diversamente, nella roccaforte si sentiva in trappola, provò a convincere il padre e la madre di Stefania a seguirlo nel suo nascondiglio, inutilmente, tutta la comunità gozzitana nei casi di estremo pericolo agiva d'istinto e le mura solide della Cittadella apparivano istintivamente come l'unica garanzia di sopravvivenza. Con il cuore pesante, Antonio, prese le poche provviste che aveva in casa e correndo si diresse verso il suo nido d'uccello, situato nella costa nord est. 
Il nido d'uccello l'aveva scoperto quando da ragazzino, andava sulle scogliere strapiombanti a caccia di volatili migratori. Era una cavità inaccessibile posta una decina di metri sotto il ciglio del dirupo. Era una grotta antichissima che l'uomo nel tempo aveva reso confortevole, modellandone l'entrata e lo spazio interno non più grande di una stanza. Antonio la vide la prima volta, quando provando a pescare sulla riva sottostante, un rumore di pietra rotolante gli fece alzare lo sguardo, scorgendola casualmente con i suoi occhi di giovane falco, qualche centinaio di metri più in su a tre quarti della parete verticale della scogliera. Il giorno stesso, incuriosito,  dalla sua sete inesauribile d'avventure che l'età e l'indole gli avevano donato, andò in cima alla scogliera, prese una corda e fissatola ad una roccia solida si calò per una decina di metri, scendendo trovò tracce nella parete verticale di mozziconi di travi, che un tempo dovevano sicuramente sostenere la struttura della scala d'accesso. Arrivato all'ingresso, vi entrò passando dalla luce accecante del giorno e dal caldo ventoso estivo al buio fresco dell'antro. Col suo acciarino fece luce e la caverna si presentò,  era spoglia e asciutta, nelle pareti c'erano diverse incisioni consumate, disegni, simboli e antiche, scritte misteriose, il pavimento era cosparso da uno strato di guano alto un palmo. Ora passata la prima eccitazione della scoperta, cominciava a sentirne anche il puzzo forte, che gli entrava nella pelle. Probabilmente da quando crollo la scala in legno che portava all'entrata, l'uomo non vi aveva messo più piede e col tempo ne venne pure dimenticata l'ubicazione, solo gli uccelli, la visitavano e ne avevano consacrato il loro nido, il maestoso nido. Crescendo, Antonio, l'aveva pulita e resa accogliente e nei giorni di passaggio dei migliaia  uccelli migratori, l' aveva fatto diventare una micidiale trappola, foderandola di reti da pesca cadenti, dove i volatili esausti, entrandovi al volo impigliandosi nei tendaggi, passavano dallo stato di massima libertà a quello di prelibatezza culinaria. -

La rabbia repressa degli ottomani per la mancata conquista di Malta si sfogò sulle mura della Cittadella. A capo degli assalitori si pose il già noto Dragut che la bombardò giorno e notte, fino a quando giorni dopo capitolò. con la resa della sparuta guarnigione che la difendeva. Quella resa costò un terribile prezzo, tutta la popolazione venne divisa tra uomini, donne e bambini per poi essere deportata come schiavi nelle terre libiche. Bruciarono e distrussero tutto quello che c'era, campi coltivati, case, chiese, documenti. Lasciarono in vita solo 40 vecchi decrepiti al loro misero destino. In tutta l'isola ci furono un centinaio di sopravvissuti nascosti nelle mille grotte e fra di essi anche Antonio Calleja. Gli storici raccontano, che ci vollero quasi due secoli per ripopolare l'isola e riportarla al numero di abitanti di quell'estate del 1551.

Antonio sempre nascosto nel suo nido, da qualche giorno non sentiva più il suono assordante dei cannoni saraceni, vedeva solo dalla sua piccola apertura, una galea ormeggiata cento metri più in basso nel suo prediletto luogo di pesca. Quel giorno soffiava un vento impetuoso da nord-est, il grecale che copriva ogni suono. Quasi non si accorse che alla sua destra, dalla collina scendeva una guarnigione saracena, con una fila di prigionieri. Vide dalle vesti che erano tutte donne, il suo cuore cominciò a battere all'impazzata. Tra le donne riconobbe Stefania e il suo cuore si fermò. Vide le donne piangenti e disperate arrivare nei pressi dell'imbarcazione spinte e malmenate dalle guardie animalesche. A quel punto Antonio si destò e comincio ad urlare il nome della sua amata, da lassù aggrappato al suo nido, pronto a spiccare un volo senza ali. Urlava straziato e piangeva, Stefaniiiiaaaa! Stefaniaaaaaa! Il vento cancellava tutto, ma non si arrese, voleva rivedere il suo volto, ancora una volta prima di gettarsi nel vuoto. Con le unghie graffiava la pietra e poi con i pugni la percuoteva gridando Stefaniiiiaaaa! A quello strazio d'amore il dio del vento si impietosì e d'improvviso calò. Stefania, stremata, terrorizzata con il capo chino, senti il suo nome nell'aria e ne riconobbe la voce. alzò la testa di scatto e si girò verso la montagna che in quel preciso istante, crollò venendo giù. Le rocce e i sassi rotolanti dell'isola, colpirono a morte le guardie, lasciando illese le donne. La rupe dove si trovava Antonio, non rotolò, si stacco dalla scogliera e venne giù scivolando ritta, sulle cascate d'argilla nel frastuono assordante della slavina. Arrivò in fondo, fino ai piedi di Stefania, schiacciando la galea, con ancora Antonio aggrappato alla porta come un Cristo in croce. Una gran nuvola di polvere copri tutto e al suo diradarsi, i due innamorati non c'erano già più. le donne superstiti, incredule raccontarono di averli visti volare via abbracciati cavalcando il grecale. 
Tutti i saggi e soprattutto i sassi dell'isola sapevano che il loro destino era di vivere assieme. Era una cosa non scritta, ma vera come l'aria del mattino.



Epilogo
Qualche turista con buone gambe e buona testa, solo un po' più spericolato, nelle calde giornate estive quando soffia impetuoso il grecale da nord-est, è salito sino all'entrata della grotticina e giura di aver riconosciuto nel suono sibilante del vento nella cassa armonica della buia cavità, il nome di Stefaniiiaaaa!

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